INCEPPATA LA RIFORMA DEL TERZO SETTORE

Il 29 gennaio 2020 il Consiglio di Stato ha sospeso la richiesta del pareri, in merito al Decreto concernente l’individuazione di criteri e limiti delle c.d. attività diverse (art. 6 del codice del Terzo Settore).
Tale  sospensione viene giustificata basandosi sulla necessità di rispondere ad un interrogativo ampiamente diffuso e condiviso. Ma la Commissione europea non doveva dare una risposta, un’autorizzazione sulle disposizioni fiscali del codice del Terzo Settore?

Sono passati quasi tre anni dall’approvazione del Codice, ed ormai siamo a pochi mesi dall’operatività del Registro Unico Nazionale. Pare che tale autorizzazione non solo manchi, ma non sia stata nemmeno richiesta.
Ora, come è facilmente immaginabile, non è possibile considerare marginale tale aspetto: al contrario, esso è centrale e sicuramente determinante.
Infatti, va tenuto presente che l’intero impianto della riforma dipende da questa autorizzazione, perchè se anche solo in parte non è confermata, tutta la stessa qualifica di ETS non è confermata. Essa rappresenta la ragione principale della stessa qualifica, ovvero la parte fiscale.

Come ha giustamente considerato il Consiglio di Stato, non ha senso ragionare dei limiti delle c.d. attività diverse se non ne è chiara la rilevanza fiscale, unitamente a quella delle attività di interesse generale (di cui all’art. 5).
Oppure, considerando un altro scenario, che senso avrebbe per un Ente aderire, iscriversi al Registro del Terzo Settore, se con tale atto sono più gli aspetti negativi che quelli positivi.!.?

Ma ben analizzando, il rischio potrebbe essere ancora maggiore: in ballo non vi è solo l’attuale riforma ma, a ben guardare, forse anche tutta la normativa pregressa e riformata.

Chiedendo alla  Commissione europea di autorizzare quello che sarà, ciò equivale ad accendere un enorme riflettore su quello che è stato!
E gran parte del regime agevolativo pregresso non è mai stato autorizzato perché, all’epoca, non ve ne era la necessità. E forse è questa la maggiore e legittima preoccupazione di quanti stanno lavorando al dossier da inviare a Bruxelles. La questione non rispecchia solo l’aspetto tecnico, ma anche politico

Nella riforma del 2017 la vera discriminante è stata riscattare, fare chiarezza sul  concetto  del ” no profit”  che non significa solo rifiuto del profitto  ma,  piuttosto, un ” non profit” (dall’inglese not-for-profit) che non ha il significato di non generare profitto bensì di non redistribuzione degli utili eventualmente prodotti, con l’obbligo di reinvestirli nella causa senza generare profitto/guadagno per chi apporta le risorse economiche o lavorative.
Ciò che conta per essere un Ente del Terzo Settore è lo scopo (sociale) a cui sono destinate le proprie risorse, anziché il modo di procurarsele.
La riforma, almeno in una delle sue tante anime, ha cercato di costruire questo, ovvero  consentire a tali  Enti d’investire sulle proprie iniziative d’interesse generale, anche attraverso lo svolgimento di attività commerciali, soprattutto in un periodo in cui i rubinetti delle donazioni pubbliche e private sembrano sempre più stretti.

In questo,purtroppo, si è fallito. Infatti nelle disposizioni si parla di attività a sfondo commerciale secondarie. E’ come dire, per esempio, ….“sì,… vi è concesso di svolgere attività commerciale, ma solo  per guadagnare qualche euro in più (oltre i contributi, la beneficienza) per perseguire i vostri amorevoli scopi, però senza esagerare ….”.

Questo perchè?
Per evitare di fare concorrenza a chi ha le stesse attività commerciali svolgendole esplicitamente ed esclusivamente a scopo di lucro.
Se andiamo a vedere bene, anche quest’ultimo obiettivo di tutela della concorrenza non è stato raggiunto appieno, come pure la scelta infelice che troviamo nell’art 79 del Codice.

Fondamentalmente essa  vuole definire gli ETS con la  obsoleta etichettatura “commerciale”  o  “non commerciale” dando spazio al solito equivoco di fondo. Se rimane sempre il concetto che la differenza è determinata dal valore quantitativo della percentuale dell’attività commerciale rispetto all’attività non commerciale (es. le donazioni), nel caso in cui passasse questa autorizzazione si avranno ETS non commerciali che potrebbero fatturare milioni di euro ed ETS chiamati  “commerciali” anche se con un fatturato di poche migliaia di euro, in quanto hanno poche donazioni.

Come già molti hanno detto : ” Il vero nodo, non sta nel “cosa” ma nel “perché” un ETS fa quello che fa”.

A noi pare evidente  che se abbiamo due Associazioni, una con spiccato fine lucrativo e l’altra con scopi di interesse generale, nonostante svolgano identica attività commerciale (es. vendita di magliette), tale uguaglianza non può esistere !

Per superare l’impasse, che probabilmente blocca quella richiesta di autorizzazione da 3 anni, aiuterebbe molto quanto annunciato dall’allora Commissario europeo M. Barnier ( in scadenza di mandato)  ormai 7 anni fa: un pacchetto di norme speciali in materia di aiuti di Stato al Terzo Settore e di imprenditoria sociale!

Per arrivare a ciò occorre però prima avere le idee chiare su cosa si vuole e a quali mete tendere.
Spesso si vedono norme frutto  di uno strano innesto fra frutti acerbi o, peggio, di una visione confusa ed approssimativa e tutto ciò non lascia ben sperare.